Possedere un campeggio: cosa sapere e come gestire tutti i tipi di rifiuti

Essere proprietari di un camping è certamente un’attività piuttosto redditizia ed è sufficiente questo quadro per rendersi conto che si può arrivare a incassare quasi più del 30% del fatturato. Ci sono varie zone, dove è possibile installare un campeggio. Oltre a quelle costiere e lagunari sono molto gradite alle persone anche zone a ridosso dei parchi naturali, dove spesso ci sono uno o più mete da visitare, come queste cinque presenti nei parchi veneti.

Come detto, tuttavia, poca fa oltre ai pro, tuttavia, ci sono anche i contro. E ci riferiamo ai rischi e alle responsabilità. Possedere un campeggio, infatti, significa anche conoscere e rispettare buona parte delle normative dei servizi turistici. E fra queste non sono da meno quelle relative ai rifiuti che i campeggiatori e la struttura stessa producono.

Normative e smaltimento dei rifiuti

Il gestore di un’attività di campeggio deve assicurarsi sempre che i propri campeggiatori rispettino le norme regionali attinenti allo smaltimento dei rifiuti. Ovviamente ci si riferisce alla raccolta differenziata di plastica, carta, secco e umido. Poi di importanza non secondaria c’è la corretta razionalizzazione dell’acqua attraverso contatori elettrici appositi e soprattutto il non inquinamento della stessa. Per cui è vietato gettare negli scarichi vernici e solventi chimici e in generale gli scarichi dei WC vanno solo nei canali previsti.

Autorizzazioni e trattamento delle acque reflue

Questi ultimi, infatti, devono essere oggetto di depurazione nella rete reflua. A proposito di quest’ultima, bisogna porre molta attenzione alle normative vigenti, perché servono autorizzazioni, sistemi di misurazioni e precisazioni chiare sulla capacità di produzione dello stabilimento. Inoltrarsi in questo specifico settore è davvero complesso ed è meglio rifarsi alle specifiche presenti su https://www.dorabaltea.com/acque-reflue-industriali-scarichi-industriali-quali-sono-e-come-riciclarli/. Poiché oltre alle normative ambientali ci sono anche soluzioni di riutilizzo delle acque reflue, che possono giovare anche al campeggio stesso. Lo smaltimento delle sostanze è solo una parte di una serie di norme da rispettare per i gestori di un campeggio.

Le norme sulla pubblica sicurezza

Altre che non devono essere mai sottovalutate sono quelle della pubblica sicurezza. Come struttura ricettiva il campeggio deve dare alloggio solo a persone identificabili. Le generalità devono essere comunicate alle autorità di pubblica sicurezza entro un giorno. Per altre informazioni più chiare è sempre bene controllare l’articolo 109 del TULPS. In più gli impianti sportivi e ricreativi presenti, che possono essere di proprietà del gestore o affidati a terze persone, devono rispettare tutti gli obblighi normativi e non possono essere imposti ai campeggiatori.

Le norme igienico-sanitarie dei campeggi

Anche le norme igienico-sanitarie richiedono massima attenzione. I wc, le docce, i bidet e i lavandini devono essere presenti nel giusto rapporto rispetto al numero dei campeggiatori e devono avere la necessaria manutenzione prevista.

Norme antincendio: cosa non deve mancare

Nell’ambito delle norme antincendio, bisogna effettuare controlli severi dell’uso di dispositivi o sostanze infiammabili sia nelle piazzole sia in tutti gli spazi. Devono essere presenti poi estintori ed eventuali sistemi di estinzione degli incendi.

Dove devono essere rispettate le norme HACCP

Se nel campeggio sono presenti, come ormai capita spesso, dispacci alimentari, market o bar è bene ricordare che questi devono essere a norma rispetto alle indicazioni HACCP, in merito alla sicurezza alimentare e alla conservazione di bevande e cibi.

I divieti per chi gestisce un campeggio

E concludiamo il quadro con alcuni ferrei divieti, che il gestore deve conoscere. Il primo è quello che gli spazi del campeggio non possono essere venduti né essere oggetto di cessione in godimento. Il secondo è che alla fine del rapporto pattuito c’è il divieto di rimuovere dalla piazzola i mezzi di pernottamento e le strutture mobili.

Estintori in condominio: quando sono obbligatori?

La presenza degli estintori nei condomini rappresenta un importante aspetto per garantire la sicurezza di chiunque risieda o lavori all’interno dell’edificio, oltre a costituire un obbligo stabilito dalla legge.

In Italia, esiste una normativa antincendio che prescrive l’installazione di estintori in determinati contesti e ambienti, compresi gli edifici pubblici, i luoghi di lavoro e i condomini.

Purtroppo, il decreto 16 maggio 1987 n. 246, è spesso trascurato nell’ambito condominiale. Per cui, è importante chiarire quando l’installazione degli estintori diventa obbligatoria, quali sono le disposizioni legislative in merito, come vengono suddivise le eventuali spese e chi è responsabile della loro sostituzione e manutenzione.

Quando è obbligatorio avere un sistema antincendio

La presenza degli estintori (e di un sistema antincendio) all’interno di un condominio è obbligatoria quando sono presenti elementi potenzialmente pericolosi, suscettibili di causare incendi, come autorimesse, caldaie e impianti GPL.

Questa disposizione è valida anche per gli edifici che non superano i 24 m di altezza. In caso di altezze superiori, diventa necessario installare una rete di idranti.

Indipendentemente dalle caratteristiche dell’edificio, è essenziale presentare un progetto per l’installazione degli estintori e del sistema antincendio, il quale deve essere approvato dai Vigili del Fuoco.

Per la realizzazione e la manutenzione del sistema antincendio, è possibile trovare tutte le informazioni necessarie e la consulenza necessaria in questo sito.

Dove installare gli estintori in condominio

All’interno dell’edificio, è fondamentale posizionare gli estintori in punti strategici in modo da garantire un facile accesso ai condomini in caso di incendio.

Ogni estintore deve essere accompagnato da apposita segnaletica che  lo renda visibile lungo le vie di fuga così come previsto dalle normative vigenti.

Nelle autorimesse, devono essere installati lungo le corsie di manovra, vicino agli ingressi o in posizioni ben visibili e accessibili, segnalati in modo adeguato.

La quantità di estintori necessari dipende dal numero di autoveicoli presenti: uno ogni cinque per i primi venti autoveicoli, uno ogni dieci per i successivi fino ai duecento, dopo di che uno ogni venti.

È obbligatorio dotare di estintori ogni piano del condominio quando sono presenti dipendenti diretti come portinai, giardinieri o manutentori, e anche se nelle singole unità lavorative operano lavoratori subordinati come colf, badanti o aziende di pulizia.

Queste disposizioni devono essere rispettate rigorosamente per garantire la sicurezza di tutti gli occupanti dell’edificio.

A chi spettano le spese?

Le spese relative all’acquisto degli estintori sono a carico dei proprietari degli appartamenti, mentre la responsabilità della manutenzione ricade su tutti i residenti, sia proprietari che inquilini.

Tale costo deve essere incluso nel preventivo annuale per la gestione e la manutenzione ordinaria del condominio.

Per quanto riguarda la ripartizione delle spese condominiali, l’articolo 1123 del Codice Civile stabilisce che devono essere sostenute dai condomini in proporzione al valore della loro proprietà, a meno che non sia prevista una diversa disposizione nel regolamento condominiale.

Gli obblighi dell’amministratore

Ma chi ha il potere decisionale sull’installazione degli estintori? In caso di necessità, l’amministratore condominiale può prendere l’iniziativa di ordinare l’installazione anche senza l’approvazione dell’assemblea condominiale, se ciò è previsto dalla legge e l’investimento non è eccessivamente oneroso.

Non basta però solo installare gli estintori, è essenziale anche garantirne la manutenzione periodica. Gli estintori devono essere controllati regolarmente da personale qualificato, almeno ogni sei mesi, e devono essere revisionati immediatamente dopo essere stati utilizzati.

Se quelli presenti sono scaduti da tempo, l’amministratore del condominio è legalmente responsabile della mancata manutenzione, poiché la gestione dell’immobile e la sicurezza antincendio rientrano tra i suoi compiti.

I diritti successori e come funziona la successione ereditaria

Quando viene a mancare una persona, il dolore degli amici ma soprattutto dei parenti deve purtroppo lasciare spazio, dopo qualche giorno di comprensibile disorientamento, ad una attenta disamina di tutte le questioni legali connesse ai diritti successori, ma anche ai doveri dello stesso tipo.

Le posizioni giuridiche dell’estinto infatti non spariscono insieme a lui, ma sono ereditate da soggetti che la legge identifica come successori, i quali fanno le veci del defunto ed acquisiscono i cosiddetti diritti di successione.

Questo nostro articolo vuole essere una parziale guida alle principali fattispecie che si presentano in caso di successione ereditaria: per redigerlo ci siamo avvalsi della consulenza dello studio legale Vaiana, che tra le diverse aree di competenza ha proprio la materia delle successioni sia testamentarie che legittime, e che ci ha fornito un utile vademecum per orientarci in questioni a volte ostiche per chi sia a digiuno di diritto.
Se le prime operazioni infatti riguardano un momento contingente come l’organizzazione del funerale, nei momenti successivi si dovranno necessariamente valutare tutte le questioni legate alla successione e per le quali l’assistenza di un legale professionista sarà indispensabile.

Quando si parla di successione ereditaria?

I beni di un defunto non spariscono ovviamente nel nulla insieme a lui, e i diritti sui suoi possedimenti sia mobiliari (si pensi a un patrimonio custodito in banca) sia immobiliari passano agli individui a lui più vicini in linea di sangue o di parentela: in genere, i parenti più stretti quali il coniuge o i figli. Nel caso non sussista un nucleo familiare, si tiene conto delle persone immediatamente prossime quali eventuali fratelli, nipoti o zii.

La legge fa una netta distinzione in caso di morte tra la successione testamentaria e la successione legittima.

La successione testamentaria

È successione testamentaria, come suggerisce il termine stesso, quella in cui il defunto abbia redatto prima di morire un documento scritto che contenga le sue ultime volontà in un momento in cui era in possesso delle sue facoltà mentali, e che sia stato validato da un notaio. È un documento che può contenere anche istruzioni e disposizioni sulle modalità o sui tempi nei quali i beni devono essere trasferiti e resi disponibili agli eredi.

La successione legittima

In assenza di questo documento di valore legale inequivocabile ed inoppugnabile si apre la cosiddetta successione legittima, che trasferisce secondo la legge le posizioni giuridiche ai parenti più prossimi, ed in questo caso possono sussistere le successioni a titolo particolare (con trasferimento solo parziale delle posizioni giuridiche) o le successioni a titolo universale che indicano come il successore subentri per intero facendosi carico di diritti e obblighi relativi al defunto.

La Dichiarazione di successione

Naturalmente la questione non è così semplice come può apparire da quanto appena descritto, e del resto non si spiegherebbe altrimenti il ruolo fondamentale rivestito in simili casi dai professionisti della sfera legale, gli unici ad avere sufficienti competenze per affrontare tutte le procedure del caso.
Per aprire una procedura di successione gli aventi diritto devono presentare la Dichiarazione di successione, un documento dettagliato ed estremamente formale che comprende ed elenca il tipo di beni oggetto della successione, la loro natura ed entità, e le generalità dei successori, i quali accettano diritti e doveri derivanti. Senza tale Dichiarazione non è possibile subentrare in termini legali al defunto.

È inoltre necessario versare in via telematica tramite Entratel o Fisconline l’imposta di successione, che viene calcolata sulla base imponibile netta del valore dei beni materiali, una volta detratte quindi le passività.

È possibile rinunciare alla successione?

In alcuni casi può accadere che un defunto lasci in eredità solo delle passività che si rivelano maggiori dei beni all’attivo. La legge consente in tali casi di rifiutare di assumersi diritti e doveri associati all’eredità, che passa così ai parenti più prossimi.
È inoltre possibile accettare la successione con il beneficio dell’inventario, tutelando così il proprio patrimonio personale, ma è rilevante sapere che la rinuncia è invece definitiva e non dà alcun diritto a successivi ripensamenti; inoltre, non può essere parziale e considerare solo parte dell’eredità, ma la deve contemplare nella sua interezza.

Diritti e doveri dei genitori sono indipendenti dallo “status” della coppia

Una volta che si diventa genitori lo si resta per sempre!

Questo, che potrebbe sembrare uno slogan, in realtà è il resoconto di un dato di fatto: i diritti e i doveri di un padre e una madre non dipendendo né derivano dal matrimonio o dalla convivenza, ma dal rapporto di filiazione, e questo significa che essi perdurano anche nel caso in cui le due circostanze or ora citate vengano meno.

Per cui, seppure la prole dovesse essere generata al di fuori del matrimonio (ad esempio all’interno di una convivenza), la coppia genitoriale avrebbe i medesimi doveri.

E lo steso dicasi in caso di cessazione del matrimonio per separazione e/o divorzio.

La bigenitorialità

Diritti/doveri che vanno esplicati da entrambe le figure genitoriali, indipendentemente da chi dei due dovesse ottenere l’affido, secondo il cosiddetto principio di “bigenitorialità”, da intendersi come partecipazione attiva di entrambi alla crescita del minore (e alle responsabilità e alle scelte che essa comporta), e non come mera eguaglianza numerica delle ore con lui trascorse.

Anche perché tra questi doveri figura pure quello di far crescere il bambino in famiglia mantenendo con lui rapporti significativi.

Dovere genitoriale che trova il suo corrispettivo nel diritto filiale di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascun genitore e i rispettivi parenti: dunque, anche quello che non convive con il figlio non deve mancare di essere presente in maniera costante e significativa.

In sostanza su istruzione, educazione, salute, e altre questioni di straordinaria amministrazione, padre e madre, a prescindere dal fatto che siano o meno sposati, o che convivano oppure no, conservano pari responsabilità e stesso diritto/dovere di pronunciarsi; per quelle ordinarie decide il genitore che in quel momento detiene l’affido del figlio.

Infatti, anche se a ben guardare la legge tende prevalentemente ad affidare i figli che frequentano la scuola dell’obbligo alla madre (a meno che sia lei, e non il padre, a svolgere un lavoro che le imponga di rivolgersi continuamente a terze persone per la custodia dei figli), è possibile che i minori vengano affidati a turno ad ognuno dei genitori, oppure che siano loro ad alternarsi nella casa familiare dove vive la prole. 

Non solo doveri morali, ma anche economici

I minori, tutti, godono dei diritti morali di cui si è detto (istruzione, educazione, presenza genitoriale), ma necessitano anche di essere mantenuti da un punto di vista economico.

A ben guardare, anzi, come ci spiegano gli avvocati matrimonialisti di Milano dello studio legale Arenosto, a cui ci siamo rivolti per comprendere quali siano gli effettivi doveri dei genitori, il bisogno di mantenimento perdura anche oltre il raggiungimento della maggiore età, fino a quando la prole non sia in grado di provvedere autonomamente al proprio sostentamento.

E anche gli obblighi finanziari vanno soddisfatti da entrambi i genitori, e a prescindere dal fatto che siano sposati o divorziati, in costanza di convivenza o al termine della stessa.

In questo caso il parametro che viene adoperato è quello delle rispettive capacità economiche, che vengono analizzate e stabilite dal giudice: quello dei due che non gode dell’affido stabile del figlio partecipa alle spese versando un assegno mensile, l’assegno di mantenimento, incorrendo nel reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare qualora dovesse esimersi.

Questo per quanto concerne le spese “cicliche”, di routine… ma nel momento in cui ci fossero spese straordinarie, imprevedibili o eccezionali?

Di regola andrebbero divise equamente tra padre e madre, a meno che non ci siano stati degli accordi diversi.

E questo ci permette di introdurre l’importanza di accordi scritti e dettagliati.

Innanzitutto perché consentono di vedere soddisfatti i diritti di ogni parte in causa, in primis quelli del minore, e successivamente quelli del genitore non affidatario che in questo modo si assicura la possibilità di partecipare pienamente e attivamente alla vita del figlio (soprattutto quando si siano calibrate attentamente le necessità di ognuno).

Poi perché verranno garantite maggiori tutele in caso di inadempienze, esistendo un titolo giudiziario del quale si potrà chiedere il rispetto.

E infine perché quanto più dettagliati e rispettosi delle esigenze concrete dei soggetti coinvolti sono gli accordi più è probabile che vengano approvati dal giudice.

Anche se è bene tenere presente che, per quanto si possa prevedere ed essere minuziosi, un accordo rimane sempre una guida di massima, giacché stabilendo le condotte della vita reale e concreta deve sapervisi adattare, coinvolgendo in primis l’esistenza del minore, variabile e in continua evoluzione per definizione (pure perché, se è possibile ricorrere alla modifica degli accordi al mutare delle circostanze, non si può pretendere che ciò accada anche per le questioni di “ordinaria amministrazione”).

Cosa succede invece nel momento in cui i genitori non riescono ad accordarsi in merito ad alcuni aspetti?

È il giudice a decidere, sia che si tratti di aspetti economici che di regolamentazione dell’affido e della frequentazione del genitore non affidatario, anche perché ahinoi non sono infrequenti i casi di persone che manipolano i rapporti tra i figli e l’ex coniuge/convivente per motivi di rancore personale, che nulla dovrebbero avere a che fare col ruolo genitoriale svolto da entrambi.

Inconsapevoli, o dimentichi, che il principio di bigenitorialità è stato istituito a tutela e vantaggio dei figli, che hanno diritto a mantenere un rapporto continuativo con entrambe le figure genitoriali e la rispettiva parentela, e non a loro svantaggio!!!

Quando contestare la multa notificata oltre i termini

Quello dei termini per la notifica della multa è uno dei temi che crea maggiore confusione negli automobilisti che ricevono una multa, poiché le modalità per il calcolo dei tempi per la notifica della multa richiedono la conoscenza di alcuni principi giuridici elaborati dalla giurisprudenza.

In questo articolo andremo a chiarire quando contestare la multa notificata oltre i termini e quali sono le modalità per calcolare correttamente i tempi entro i quali i verbali devono essere notificati all’automobilista.

Qual è il termine entro cui deve essere notificata la multa

Per prima cosa è necessario chiarire che la questione della notifica assume rilevanza con riferimento ai soli verbali non contestati immediatamente, cioè per quelle infrazioni in cui il responsabile viene individuato solo successivamente alla commissione della violazione.

Il termine per la notifica della multa è individuato dall’art. 201 del codice della strada ed in particolare tale norma stabilisce che la notifica deve avvenire entro 90 giorni dall’accertamento.

Quello dei novanta giorni è un termine generale, tuttavia la stessa norma precisa che la notifica della multa può avvenire in tempi più lunghi in determinati casi.

Nello specifico il termine è di trecentosessanta giorni quando l’infrazione è commessa da soggetti residenti all’estero.

Il termine ordinario previsto dall’art. 201 del codice della strada non si applica anche alla notifica delle multe per infrazioni commesse con auto a noleggio, infatti per tali infrazioni il termine per la notifica del verbale è di 90 giorni ma inizia a decorrere dal momento in cui l’organo che ha emesso il verbale riceve la comunicazione dei dati del soggetto utilizzatore da parte della società di noleggio.

Come si calcola il termine di novanta giorni per la notifica della multa

Abbiamo chiarito entro quale termine deve essere notificata la multa, se la notifica avviene oltre i termini il verbale può essere contestato.

Tuttavia per contestare il verbale perché notificato oltre 90 giorni è necessario capire come calcolare esattamente le date per la notifica.

Per prima cosa va precisato che il termine inizia a decorrere dal momento dell’infrazione, tale aspetto è stato chiarito più volte dalla Corte di Cassazione.

Purtroppo molte amministrazioni, sfruttando l’ambiguità della norma, facevano decorrere il termine di notifica non dalla data della violazione, ma dal momento in cui gli agenti preposti analizzavano le foto relative alle infrazioni (questo “espediente” veniva utilizzato prevalentemente per la notifica delle infrazioni rilevate con autovelox, T-Red, con i varchi ZTL e più in generali in tutti quei casi in cui per la verbalizzazione era necessario procedere all’analisi dell’immagine scattata dal dispositivo elettronico).

Pertanto il termine iniziale coincide con la data dell’infrazione, mentre il rispetto dei novanta giorni per la notifica deve essere calcolato con riferimento alla data in cui il verbale è stato affidato per la consegna.

Questo è un elemento molto importante, poiché non si deve fare riferimento al momento in cui il verbale è stato consegnato al destinatario (momento dal quale decorrono i termini per il pagamento e per la proposizione dell’eventuale ricorso contro la multa), ma al momento in cui il verbale è stato affidato al servizio di recapito per la consegna.

In conclusione: quando è possibile contestare una multa perché notificata oltre i termini

In generale, fatta eccezione per i casi sopraindicati, la multa può essere contestata quando la notifica avviene oltre il termine di novanta giorni dalla data dell’infrazione.

Tuttavia come specificato nell’articolo è necessario prestare molta attenzione al calcolo della data per la notifica del verbale, soprattutto con riferimento al momento rispetto a cui calcolare i 90 giorni.

Poiché qualora si prendesse come riferimento la data di consegna del verbale questo potrebbe apparire erroneamente come notificato oltre i termini determinando il rigetto del ricorso.

Fatturazione elettronica in Italia, ecco tutti i requisiti

Il piano dell’Italia di rendere obbligatoria la fatturazione elettronica dal 1° gennaio 2019 per tutte le forniture B2B e B2C di beni e servizi, tra parti stabilite o con partita IVA, creerà nuove sfide.

Le fatture elettroniche dovranno essere emesse tramite il “Sistema di Intercambio” (SdI), la piattaforma attualmente utilizzata per trasmettere fatture elettroniche agli enti pubblici, che permetterà all’Agenzia delle Entrate di raccogliere automaticamente i dettagli delle fatture elettroniche prima di fornire la fattura elettronica al cliente.

Per questo motivo i file forniti dovranno essere in formato XML per fare in modo che il sistema possa assegnare il codice fiscale corretto, le informazioni nell’XML devono essere mappate per assicurarsi che vengano inviate, ricevute e segnalate correttamente da tutte le parti.

Pertanto, è importante considerare i processi interaziendali o il software di scansione che attualmente alimenta le informazioni del sistema.

Per quanto riguarda l’auto-fatturazione il cliente potrà creare fatture per conto del venditore e se la fattura è stata respinta da SdI dovresti cambiare qualcosa nell’XML e inviare nuovamente, annullare o inviare un nuovo XML.

Cosa succede se tu o i tuoi fornitori non siete in grado di inviare le fatture tramite il formato XML in tempo? Oltre alle sanzioni imposte, le autorità fiscali italiane potrebbero anche negare la detrazione dell’IVA a monte, se non ricevono la fattura via formato XML in tempo utile?

Tieni presente che il decreto non è chiaro, ma dovresti iniziare a pensare a come implementare l’obbligo italiano nei tuoi processi aziendali e in questo può esserti utile il software per la fatturazione elettronica proposto da Savino Solution, in linea con le normative per evitare sanzioni in merito. Questo è il prossimo passo nel percorso di monitoraggio in tempo reale dei governi, in relazione alla tassa indiretta.

Anche se un po’ prima del previsto, non sarà l’ultimo paese né l’ultimo cambiamento. Per i fornitori di carburante, la fatturazione elettronica è un obbligo dal 1° luglio 2018. Tutte le altre operazioni transfrontaliere rientrano nell’obbligo di segnalazione mensile dei dati elettronici.

Il formato XML di Fattura PA è l’unico formato attualmente ammesso, anche se in futuro potrebbero essere consentiti diversi formati basati su standard europei.

Fatturazione elettronica in Italia dal 2019

La fatturazione elettronica italiana sarà obbligatoria su tutte le transazioni B2B a partire dal 1° gennaio 2019. Qui spieghiamo i passaggi da eseguire per iniziare ad adattare il sistema ERP per produrre e ricevere fatture elettroniche in base ai requisiti locali italiani.

Il nuovo obbligo dovrebbe essere esteso a diverse fasi:

  • per il settore forniture di benzina e diesel, la fattura elettronica obbligatoria era stata stabilita a partire dal 1° luglio 2018, la scadenza posticipata al 1° gennaio 2019;
  • dal 1° settembre 2018, l’obbligo si applicherà a tutte le forniture per uso personale con un valore superiore a € 15;
  • dal 1° gennaio 2019, saranno richieste fatture elettroniche su tutte le transazioni B2B in Italia.

La scadenza del 1° luglio per benzina e gasolio è stata posticipata al 1° gennaio, tuttavia ciò non è stato confermato e le imprese dovrebbero lavorare sulla base del 1° gennaio come termine ultimo.

Sanzioni per la fatturazione elettronica italiana 

A partire da gennaio 2019, quando un fornitore emette fattura su carta o altri mezzi al di fuori del requisito legale di fatturazione elettronica, sarà considerato come non emesso. Le penali per il mancato rilascio di una fattura valida vanno dal 90% al 180% dell’IVA dovuta.

I clienti dovrebbero inoltre assicurarsi di ricevere la fattura in formato XMLPA, se tale formato non è soddisfacente, l’IVA su questa fattura non sarà deducibile.

Se la detrazione dell’IVA non è volontariamente regolarizzata con le fatture elettroniche ricevute, il cliente dovrà pagare una penale del 100% dell’IVA detratta con un minimo di € 250. Le transazioni transfrontaliere saranno soggette a un regime di sanzioni distinto.

Una sanzione di € 2 per fattura verrà applicata su ogni transazione che non è stata documentata con una fattura elettronica. Una sanzione massima di € 1.000 si applica a questo regime. Inoltre è possibile ridurre la sanzione finale del 50% se la regolarizzazione viene effettuata entro 15 giorni dal momento in cui la fattura avrebbe dovuto essere emessa.

In conclusione è necessario emettere e ricevere fatture elettroniche se si stanno svolgendo attività commerciali in Italia, anche se non sono state registrate con l’IVA.

Codice ATECO della partita IVA: cos’è

Quando si vuole aprire (o si è costretti ad aprire) partita IVA ci sono tante informazioni che è giusto cercare di conoscere circa la propria condizione.

Una delle cose che bisogna conoscere, quando ci si appresta a questo passo, è che cosa sia il Codice ATECO.
Una volta effettuata la comunicazione unica e l’iscrizione al Registro delle Imprese, come previsto dalla legge in occasione dell’apertura della partita IVA, è necessario scegliere il codice ATECO.Ma di che cosa si tratta?

Il codice ATECO significa letteralmente Attività Economiche, ed è una tipologia di classificazione usata dall’Istat per i rilievi statistici delle attività economiche su base nazionale.

Il codice ATECO consiste, in pratica, in un codice identificativo alfanumerico (composto quindi sia da lettere che da numeri), che classifica l’impresa quando essa viene in contatto con l’amministrazione pubblica. Le lettere del codice identificano il macro settore economico, mentre invece i numeri, che vanno da due fino a sei cifre, identificano tutte le articolazioni dell’attività sempre più nello specifico.

Il codice ATECO è molto particolareggiato e va specificando da una classe di attività (ad esempio la sezione C, attività manifatturiera) via via l’attività economica sempre più specifica posta in essere da un’impresa.
La classificazione del codice segue uno schema di questo tipo: Sezioni, Divisioni, Gruppi, Classi, Categorie, Sottocategorie.

Il codice ATECO permette di stabilire la categoria contabile, fiscale e statistica di una partita IVA. In questo interessante articolo trovate altre info utili sui codici ateco e limite di fatturato nel caso si apra partita iva in regime forfettario.

A partire dal primo gennaio del 2007, l’indicazione del tipo di lavoro dell’azienda avviene proprio sulla base del codice ATECO, in modo standard ai fini fiscali, contributivi e anche statistici.

Quando si apre la partita IVA infatti bisogna segnare quale sia il codice ATECO che si riferisce alla propria attività economica, codice necessario anche all’attività statistica.
Il codice in questione serve anche, in ambito di sicurezza sul lavoro, a stabilire la categoria di rischio di una certa attività secondo la classifica rischio alto, medio, basso. Ogni attività economica, nelle linee dell’INAIL predisposte nel 2011, ha un suo codice particolare che deve anche individuare un certo tipo di misure di protezione e di prevenzione per i lavoratori, a seconda che il rischio sia minore o maggiore.

Ovviamente il codice ATECO che abbiamo scelto non identificherà per sempre l’azienda, laddove debba esserci un cambiamento nell’attività economica sarà infatti necessario scegliere un codice ATECO nuovo comunicando il cambiamento di attività al registro imprese, come a norma di legge.

Primo soccorso: normativa e cassette di pronto soccorso

Il primo soccorso è l’insieme di alcuni fattori: le procedure a cui devono attenersi i lavoratori addetti alla sua gestione, la formazione degli stessi lavoratori designati e le attrezzature che vengono loro messe a disposizione per l’espletamento del servizio; rispondendo alle prescrizioni della vigente normativa sulla sicurezza del lavoro.

L’obbligo di istituire un servizio di pronto soccorso aziendale grava sul Datore di Lavoro fin dai tempi del D. Lgs. 626/94 che ne prevedeva l’esistenza all’articolo 15, comma 3.

Il successivo Decreto Ministeriale 388/03 nacque come regolamento di attuazione di quell’obbligo. Dettava, e lo fa tutt’ora, le disposizioni da seguire per la corretta creazione e la successiva gestione del pronto soccorso aziendale.

Con l’avvento del D. Lgs. 81/08, quest’ultimo ha confermato l’obbligo della presenza del pronto soccorso aziendale, continuando a fare esplicito riferimento al D.M. 388/03.

La cassetta di primo soccorso e il pacchetto di medicazione

La cassetta primo soccorso, insieme ad un mezzo idoneo per contattare rapidamente il sistema di emergenza del Servizio Sanitario Nazionale, è una delle attrezzature che il Datore di Lavoro deve garantire nelle aziende classificate nei gruppi A e B, secondo i dettami del D.M. 388/03.

Per le aziende appartenenti al gruppo C la cassetta viene sostituita dal pacchetto di medicazione.

Ubicazione della cassetta di primo soccorso

In ogni posto di lavoro soggetto all’obbligo della sua presenza, la cassetta di primo soccorso deve essere tenuta in un luogo facilmente accessibile. Non solo: deve anche essere adeguatamente custodita. Questo significa che la sua sola presenza non è sufficiente, ma è necessario garantirne le perfette condizioni d’uso; perché lo scopo dell’esistenza della cassetta di primo soccorso è mettere a disposizione dei lavoratori i principali presidi medici in caso di emergenza. Cassette abbandonate in un angolo, poste su uno scaffale, magari sotterrate sotto una montagna di roba non hanno alcun senso. Oltre a contenere tutte queste disposizioni, il D.M. 388/03 sancisce anche che il luogo in cui viene custodita la cassetta di primo soccorso deve essere indicato con l’apposita segnaletica.

Contenuto della cassetta di primo soccorso

Abbiamo detto che lo scopo della cassetta di primo soccorso è garantire la presenza dei principali presidi medici in caso di emergenza, ma quali sono?

Il contenuto minimo viene garantito dall’Allegato 1 al D.M. 388/03 che ne sancisce, inderogabilmente, l’entità. Il medico competente e il personale appartenente al sistema di emergenza del Servizio Sanitario Nazionale possono prescrivere ulteriori integrazioni, a copertura di specifici rischi presenti in un determinato luogo di lavoro.

Normalmente, una cassetta di primo soccorso contiene: guanti sterili monouso, soluzione cutanea di iodopovidone, soluzione fisiologica, compresse di garza sterile di varie misure, teli sterili monouso, pinzette da medicazione sterili monouso, rete elastica, cotone, cerotti di varie misure, cerotto in rotoli, forbici, lacci emostatici, ghiaccio pronto uso, sacchetti monouso per la raccolta di rifiuti sanitari, termometro e sfigmomanometro.

L’importanza della cassetta di primo soccorso

Da quanto sopra esposto risulta chiaro che la cassetta di primo soccorso non è una sala chirurgica portatile, ma un elemento di supporto. Il suo scopo è fornire gli strumenti basilari per la gestione di emergenze di piccola o media gravità e dare un primo aiuto per preparare l’infortunato in caso di gravi infortuni, in attesa dell’arrivo dell’ambulanza o, se possibile, trasportarlo in ospedale.

Cassetta di primo soccorso, mantenimento in efficienza

Va da sé che la cassetta da sola è soltanto un’attrezzatura che, come tutte le attrezzature, ha bisogno di manutenzione per mantenere la sua efficienza. Oltre al buon senso, la normativa prevede specificatamente che la stessa deve essere oggetto di un costante monitoraggio circa la completezza e lo stato d’uso dei presidi che contiene.